domenica 20 dicembre 2009

Concetto di competenza

Limitatamente al contesto dei titoli di competenza giudiziale, i civilisti definiscono la competenza come “la misura della giurisdizione”,[1]
o come la quantità di giurisdizione spettante al singolo giudice, oppure, facendo confluire i due concetti, come la quantità e la misura della giurisdizione.[2]
Si parte dalla considerazione che, se al mondo o nella società ci fosse soltanto un giudice, la questione della competenza, o meglio dei titoli di competenza, non si porrebbe nemmeno. Infatti, un solo giudice, per tutti i territori, per tutte le cause, per tutte le persone e per tutti i gradi di giudizio, sarebbe sempre lui, a decidere tutte le cause. Ma dal momento che, per ragioni di vario genere, nella società civile o ecclesiastica ci sono molti giudici, cioè persone con potestà di giudicare, sorge il problema di stabilire dei criteri che servano a determinare in concreto il giudice che, fra tanti altri, ha potestà di giudicare quella determinata causa.
Si ritiene allora la giurisdizione o potestà giurisdizionale, strutturata come un totum che si può spartire o dividere in molte porzioni, parti o fette, da affidare poi ai singoli giudici, e si dice che la competenza è la porzione, parte o fetta di giurisdizione assegnata a ciascun giudice.
I canonisti, eccettuati quelli che seguono da vicino le teorie dei civilisti e che, quindi, ritengono pure la competenza come porzione o misura della giurisdizione, vedono nella competenza una limitazione della giurisdizione non quantitativa o qualitativa, ma ontologica, quella cioè che risulta dal contrapporre la species al genus o il concretum all’abstractum.
In questa linea NOVAL, anche se parla della competenza come “limitatio vel mensura iurisdictionis”, precisa bene il senso della limitazione o della misura, e definisce la competenza in questi termini: “Iurisdictio, igitur, est iudicandi potestas abstracta a limitata ad certas causas..Iurisdictio igitur, est iudicandi potestas abstracta a limitazione; competentia autem est iurisdictio quatenus limitata”.[3]
Più esplicito nella concretezza della competenza è CAPPELLO: “Competentia est ambitus iurisdictionis seu potestas quae iudici competit circa causam sibi propositam, omnibus circumstantiis – loci, rei, materiae, personae – consideratis….Quilibet iudex pollet iurisdictione, non semper vero competens est in omnes causa set personas. Est igitur competentia iurisdictio in concreto considerata”. [4]
Perciò, seguendo la traccia di Noval e di Cappello, ritengo che la competenza è la giurisdizione in concreto, cioè la giurisdizione su quella materia, tra queste persone, in questo territorio, in questo grado di giudizio. Dicendo questo si vuole significare positivamente che tutta la giurisdizione o potestà giudiziale esistente in quella società è concentrata e operante nel giudice competente. Il giudice singolo, quando è competente, rappresenta e incarna e tutta la società riguardo alla causa che deve giudicare, e resta investito di tutta la potestà giudiziale di quella società. Per tanto, non divisione o porzione, ma totalità o pienezza di giurisdizione per quel caso in concreto.[5]
Negativamente il concetto espresso suole significare che, fuori della potestà giudiziale del giudice competente, non resta assolutamente nulla di giurisdizione, non esiste più un altro giudice che possa avere, in realtà, giurisdizione o potestà per giudicare quella causa. Solo lui, in senso esclusivo, ha la potestà di giudicare quella causa in concreto.
E’ ovvio che se la competenza è la giurisdizione in concreto, i titoli di competenza non sono competenza, né danno la competenza. Servono soltanto a cercare e determinare in concreto i criteri in base ai quali individuare, fra i diversi giudici, l’unico ed esclusivo giudice che ha la giurisdizione conferitagli dalla società per giudicare quella causa in concreto.
Tali criteri, per essere adatti ad un’attività giudiziaria che deve attuarsi nel Popolo di Dio, debbono non soltanto essere capaci di realizzare una efficiente suddivisione quantitativa della funzione stessa tra tutti i soggetti che vi partecipano, ma soprattutto debbono qualititativamente rapportarsi alla natura di una tale funzione, tendendo, come ogni altro momento della sua complessiva articolazione, a garantire ed a salvaguardare la ricerca della verità, che è la ragione dell’esistenza di un’attività giudiziaria nella Chiesa.
I criteri di competenza individuano quindi l’ambito nel quale, per una giusta ricerca della verità, ciascun soggetto che ne è investito può attuare la funzione giudiziaria. Identificando, attraverso tali criteri la sfera di esercizio della funzione, la competenza deve essere ritenuta, tra soggetti egualmente dotati del potere necessario, una identificazione - giustificata, nella necessaria ripartizione funzionale, dall’esigenza di tutelare convenientemente la giusta ricerca della verità in quel determinato ambito – della capacità, per sé, almeno tendenzialmente, esclusiva in rapporto ad ogni altro soggetto investito, di compiere atti processualmente necessari al giusto accertamento della realtà fattuale e giuridica.
[1] Così si esprimono per es. CHIOVENDA: “Misura della giurisdizione in atto, dicesi competenza in senso proprio” (G.CHIOVENDA, Principi di diritto processuale civile, 3 ed., Napoli 1923, p.368; BETTI: Competenza è “la misura del potere giurisdizionale di cui ogni singolo organo è investito, dati i limiti che ciascun organo restringono nell’esercizio della funzione, e i criteri che determinano la scelta del più idoneo alla decisione delle singole liti” (E. BETTI, Diritto processuale civile italiano, 2 ed. , Roma 1936, p.134).
[2] Così per esempio GIONFRIDA: Competenza è “la quantità della giurisdizione spettante a ciascuno dei giudici ordinari o più precisamente, la misura in cui gli è attribuito l’esercizio della potestà giurisdizionale” (G. GIONFRIDA, Competenza civile, in Enciclopedia del diritto (ed. Giuffrè) vol. VIII, p.40.
[3] J. NOVAL, Commentarium Codicis iuris canonici, Liber IV, De processibus, Pars I, De iudiciis, Marietti 1920, p.33-44.
[4] F.M. CAPPELLO, Summa iuris canonici, vol, VII (Romae 1940), pp.12-13.

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